www.lagelateriadellarte.it di Francesco R. Giornetta
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5. Ha senso chiedersi se esiste una definizione di Arte? Conclusione.

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Eccoci arrivati all’ultimo articolo di questo progetto sulla definizione di Arte.

La sentenza Brâncuși ci ha portato, tramite le tre considerazioni da essa derivanti, al punto in cui abbiamo visto che:

  • Non è possibile circoscrivere in una definizione un settore, quello dell’arte, troppo variegato al suo interno;
  • L’arte non può soggiacere ad un carattere di atemporalità, ma muta nel tempo;
  • La figura dell’esperto d’arte è dirimente nelle dispute su cosa è arte ed è illuminante per lo spettatore per comprendere gli aspetti nascosti dell’opera d’arte.

Abbiamo parlato anche di alcune delle teorie che hanno tentato di definire l’arte ed il concetto stesso di arte.

Ogni qual volta abbiamo cercato di dare una definizione all’arte, ci siamo trovati a gestire una sorta di generalizzazione che rendeva inefficace ogni tentativo.

La richiesta di condizioni individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti affinché un’opera fosse considerata arte ci ha portato ogni volta a fronteggiare un’esigenza di atemporalità dell’essenza stessa dell’arte.

L’unico spiraglio di successo, in questa ricerca, ci è arrivato da Wittgenstein e dal suo concetto di somiglianza di famiglia. Secondo il filosofo viennese l’arte porta con sé qualcosa di “genetico”, non visibile all’occhio umano, che ne determina in qualche modo una continuità storica. Abbiamo detto che l’Arte è un concetto fibroso, qualcosa di simile all’intrecciarsi di fibre.

Ma questo, però, ci porta lontani dall’individuare una definizione di arte, o meglio ci porta alla consapevolezza che questa ricerca non può generare altro che una generalità che ogni volta, per avere un senso, ha bisogno dell’individuazione del dettaglio, della particolarità, necessariamente collegata al periodo storico-culturale contingente.

Wittgenstein parla del linguaggio e dei giochi.

Pensiamo ai giochi. Proviamo a fare una lista di giochi che conosciamo:

  • Tennis;
  • Pallacanestro;
  • Gioco dell’oca;
  • Vari giochi con le carte;
  • Calcio;
  • Mosca cieca;
  • Nascondino;

e potremmo andare avanti con centinaia di altri.

Riuscite a dare una definizione di gioco? Non credo.

Ogni volta, in aggiunta al termine gioco, dovete spiegare il dettaglio contestuale, e questo porta ad un allargamento, ad una generalizzazione della definizione, tale da rendere la stessa insignificante.

Questo è esattamente quello che vuole spiegare Wittgenstein. Ogni gioco ha le sue regole e, come ho avuto modo di scrivere, le regole costitutive di un’istituzione, sia essa arte o gioco, nascono a seguito delle pratiche attuate.

Nel gioco degli scacchi le regole ci dicono chi vince e chi perde; nell’arte ci dicono cosa è arte e cosa non lo è.

Le pratiche (nel nostro caso le pratiche artistiche) assolvono il compito delle condizioni necessarie e sufficienti con la differenza però che mentre quest’ultime vorrebbero determinare la natura di opera d’arte in modo atemporale, le regole costitutive rendono qualcosa arte in virtù delle pratiche messe in atto in un determinato momento.

Se ci pensate bene, questo ragionamento libera l’artista dal vincolo di seguire la tradizione precedente. Credo che nessuno di noi abbia mai pensato che Picasso, Braque, Kandinskij o Klee non sapessero dipingere come chi li ha preceduti, o non conoscessero le loro tecniche, pratiche e regole. Eppure, nonostante queste conoscenze hanno cambiato le regole.

Pensiamo ad esempio al quadro scandalo di Manet, Le déjeuner sur l’herbe del 1863.

 
Le déjeuner sur l’herbe – Manet – 1863

Una donna nuda seduta su un prato che, sorridente, guarda “in camera”. Con lei due uomini completamente vestiti. Uno dei due fa la stessa cosa della donna, l’altro è ritratto nell’atteggiamento del parlare. Sullo sfondo un’altra donna che sta facendo il bagno. La scena è incorniciata da una quinta boschiva.

Si è scritto tanto su questo quadro. Il riferimento di Manet, probabilmente, è un’incisione di Marcantonio Raimondi di un’opera raffaelliana (anche se un interessante articolo di Guerrino Lovato sposta l’attenzione sulla “Caduta di Fetonte” affrescata su di un palazzo che si affaccia sull’attuale Piazza Giorgione a Castelfranco Veneto), oppure il Concerto Campestre di Tiziano che aveva sicuramente studiato nelle sale del Louvre.

Non è mia intenzione procedere ad un’indagine di ermeneutica filologica in questa sede, ma qualsiasi sia la fonte della sua ispirazione, l’opera ha scandalizzato la Parigi del 1863.

Ma perché?

Perché aveva optato per l’assenza di quella patina di mitologia ed allegoria che vestiva la tela di Tiziano e il soggetto di Raffaello. In poche parole, mancava un elemento fondamentale per l’attribuzione dello status di opera d’arte.

Manet aveva scelto di vestire gli Dei dei suoi illustri esempi in abiti contemporanei, lasciando però nuda la ninfa, anzi mettendo gli abiti dismessi al suo fianco, in una sorta di natura morta. E questo era inaccettabile in un mondo dove le pratiche accademizzanti (che vedevano il nudo ammesso solo se mitologico e allegorico) erano quelle che decidevano se un dipinto era o non era opera d’arte.

Non solo. Ha anche evidenziato la sua scelta tramite un costrutto pittorico che lascia il capolavoro in una sorta di limbo tra bidimensionalità, che sembra porlo fuori da una tradizione spaziale ed illusionistica consolidata, e tridimensionalità.

Il gruppo centrale dei tre personaggi è intenzionalmente appiattito grazie alla donna sullo sfondo (che fa il bagno) che è fuori scala, ma la rappresentazione del bosco sui lati del dipinto esprime un senso di profondità, o per lo meno lo suggerisce.

Nella Parigi della seconda metà dell’800 diventa di moda danzare e ascoltare musica all’aperto, come anche prendere il bagno in riva ai fiumi e nelle tante piscine che si stavano realizzando.

Fare il bagno diventa una pratica sociale ricreativa. Manet probabilmente è influenzato da questo nuovo agire sociale.

Quasi sempre nelle epoche precedenti le rappresentazioni dei paesaggi che vedevano anche la presenza di personaggi che si bagnavano nelle acque di fiumi, mari o laghi, ponevano quest’ultimi in sub-ordine rispetto al paesaggio idealizzato; le loro dimensioni erano quelle di comprimari del paesaggio.

 
Paesaggio con Orfeo ed Euridice – Poussin – 1650

Le dejeuner sur l’herbe, secondo la storica Linda Nochlin, è il punto in cui la tradizione astorica e atemporale della rappresentazione del paesaggio e della figura umana (che fa il bagno) subisce una rottura.

Manet pone la sua bagnante sullo sfondo e la ritrae delle stesse dimensioni degli altri personaggi, non ci pensa minimamente a scalare la figura.

Dopo di lui altri artisti ritrarranno momenti di appropriazione del territorio o di scene sull’acqua, dirette derivazioni delle pratiche sociali in atto in quel tipo di società.

Come non pensare ad esempio a La Grenauillere di Monet e Renoir, ambedue del 1869, oppure a George Seurat e alle sue La Baignade a Asniere del 1883 e La Grande-Jatte del 1884

   

Renoir – La Grenauillere – 1869
Monet – La Grenauillere – 1869
   
La Baignade a Asniere – Seurat – 1883
La Grande-Jatte – Seurat – 1884

Una probabile derivazione della vita quotidiana

Un’analisi, forse, fantasiosa sotto vari aspetti, ma che illustra molto bene l’idea di Wittgenstein sul rapporto che si instaura tra le specifiche pratiche artistiche e gli aspetti della vita sociale (ad esempio la pratica dei bagni) attraverso i quali emergono e mutano le regole costitutive.

Una nuova pratica sociale spinge l’artista a rappresentare la figura umana in forme ed ambientazioni diverse, e pur tuttavia non credo ci sia qualcuno che pensi ad un Manet incapace di rendere prospetticamente una certa scena con personaggi e paesaggio.

Con il dilagare di queste nuove mode, anche l’aspetto figurativo viene compromesso.

Manet è sempre stato considerato un rivoluzionario perché in questo dipinto distrugge l’armonia della relazione tra le figure e lo sfondo.

Le regole costitutive che riguardano il soggetto, i mezzi e le tecniche figurative, evolvono interagendo con il più ampio contesto sociale e con un insieme di vincoli e permessi artistici, con cose che si potevano e non si potevano fare in arte.

In pratica quello che, successivamente a Manet, dirà Aloise Riegl quando parlerà di Kunstwollen, di volontà dell’arte. Ricordate quello che ho scritto nel terzo articolo di questo progetto? Le tendenze artistiche di una determinata epoca sono il frutto degli orientamenti (consci ed inconsci) degli individui e della collettività.

Tornando, in conclusione, al nostro quesito, cioè se ha senso chiedersi se esiste una definizione di Arte, probabilmente quello che dobbiamo domandarci è se abbiamo veramente bisogno di una struttura rigida per identificare cosa sia arte o se invece, quello che ci serve sia piuttosto uno strumento che garantisca flessibilità.

Per quanto mi riguarda, credo che l’elemento che si debba tenere in considerazione sia quello delle pratiche artistiche che, come ho già spiegato, man mano che si consolidano fanno emergere delle regole costitutive, strettamente collegate al contesto culturale, che normano tecniche, mezzi, tematiche, ecc…

I due passi di Wittgenstein e di Vasari citati nei precedenti articoli, ci fanno capire che le regole cambiano, un po’ alla volta in modo da non stravolgere l’ordine costituito, e arriverà il punto in cui il set di regole iniziali verrà completamente sostituito, ma ci sarà comunque correlazione tra le nuove regole e parte di quelle sopravvissute.

Un continuo intreccio di fibre, come dice Wittgenstein, che vedrà la compresenza di fili completamente diversi tra loro, ma “geneticamente” imparentati.

Dobbiamo entrare nell’ottica che non esiste un intendimento univoco del significato di arte nei diversi momenti storici. Le opere prodotte in una certa epoca saranno soggette ai problemi di quell’epoca, e di quell’epoca utilizzeranno forme e linguaggi.

D’altra parte, ci sarà un motivo per cui l’arte nell’antichità e fino al medio evo era una forma sine nomine, nel cinquecento pittura e scultura diventano le Arti del Disegno, nel seicento sarà la volta delle Belle Arti, nel settecento delle Arti Figurative, dal novecento abbiamo le Arti Visive e nel contemporaneo stretto le Arti Plastiche.

Non tanto la ricerca di una definizione che ci ancori a rigidità invarianti nel tempo, ma piuttosto la consapevolezza che ciò che ha forza determinante deve essere legato alle pratiche specifiche che nel tempo cambiano, e che danno vita a regole costitutive proprie di un contesto storico culturale.

Solo in questo modo riusciremo a svincolare la comprensione di arte dalle tenaglie di una atemporalità; riusciremo a capire perché gli artisti di una determinata epoca si sentono affrancati dal seguire gli artisti precedenti pur nella consapevolezza della loro esistenza, anzi, è proprio questa consapevolezza che crea gli spazi per la deviazione dalle regole precedenti.

Per comprendere cosa sia Arte, allora, dobbiamo essere disposti ad accettarne le regole, consapevoli che esse cambiano nel tempo.

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Francesco R. Giornetta laureato in Storia e Tutela dei Beni Artistici e Musicali presso l'Università di Padova.

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